Mi capita sovente di incontrare donne con il velo. A volte sono suore, altre volte madri e mogli musulmane che vedo a scuola, al supermercato, o semplicemente per strada. Rispetto agli anni passati, quando la vista una donna musulmana destava quasi stupore, noto oggi con piacere che la loro presenza è ben accetta, anche in realtà relativamente piccole come quella in cui vivo. La “cattolica” Italia tende ad accogliere con tolleranza le persone di altre religioni o culture, accettando i simboli che le contraddistinguono.
Oggi, in occasione del “World Hijab Day”, mi corre l’obbligo di condividere con voi una riflessione più attenta e profonda relativa all’uso del velo islamico e alla sua accettazione in paesi a maggioranza non musulmana.
La questione, ancor prima che i cattolici, divide le stesse donne musulmane.
Lanciata nel 2013 dall’immigrata del Bangladesh Nazma Khan per invitare le donne di ogni credo a indossare per un giorno il velo islamico più diffuso e combattere ogni forma di discriminazione, la Giornata Mondiale del Velo Islamico ha tuttavia suscitato la reazione contraria di quelle donne che considerano lo ḥijāb una imposizione maschile inaccettabile. Cito a riguardo Leila Djitli, giornalista algerina, secondo cui “consentire che le donne siano coperte non è libertà religiosa, ma complicità con i carcerieri”.
È evidente dunque che l’argomento infiammi prima di tutto le dirette interessate. Se da una parte vi sono infatti donne che esibiscono fiere il proprio velo, dall’altra vi sono coloro che si oppongono duramente.
Da che parte stare in questi casi?
Per mia natura e formazione tendo a stare sempre e comunque dalla parte della libertà.
È libertà indossare il velo per convinzione religiosa (Le suore cristiane non lo indossano forse per scelta e devozione verso Dio?).
È libertà anche scegliere di non indossarlo.
Il problema, tuttavia, sta proprio nella “non imposizione”.
Nessun uomo, marito, guida spirituale o datore di lavoro, dovrebbe obbligare le donne a compiere un atto contrario alla propria volontà, e ciò indipendentemente dal proprio credo religioso.
Illuminante in tal senso un articolo della collega Daniela Bianchini del Centro Studi Livatino.
Bianchini ha citato due sentenze della Corte di Giustizia Europea relativa all’ uso di simboli religiosi da parte dei lavoratori sul luogo di lavoro. L’orientamento della Corte del Lussemburgo appare chiaro: il titolare di un’azienda privata può legittimamente vietare ai propri dipendenti l’uso di simboli religiosi sul posto di lavoro, purché lo faccia attraverso un regolamento aziendale e non già fondando le sue pretese su eventuali lamentele ricevute dai clienti.
Risulta evidente da queste sentenze come la Corte abbia ritenuto prevalente l’interesse del datore di lavoro a garantire neutralità politica, filosofica e religiosa rispetto alla libertà del lavoratore di manifestare il proprio credo attraverso l’utilizzo di simboli.
Può, tuttavia, la fede essere relegata ad un ambito meramente privato? E soprattutto: che fine ha fatto il diritto, universalmente riconosciuto, alla libertà religiosa?
Né un certo fondamentalismo, né un altrettanto imperante laicismo possono permettersi di insidiare la nostra sfera di libertà. E questo a prescindere da qualsivoglia credo.
Io sto con le donne che liberamente scelgono di indossare il velo, ma anche con quelle che decidono di non farlo. Sto con chi indossa una croce o la espone nel luogo in cui lavora. Sto con chi esprime le proprie idee, ma rispetta quelle altrui. Da cattolico convinto e praticante, credo nell’inclusione, nella condivisione, nella solidarietà e nell’amore. Il resto è solo “sopraffazione”.