Zucche scavate, scolpite e illuminate; abiti mostruosi e maschere dal sapore carnevalesco; bambini che, divertiti, ti si avvicinano pronunciando la frase: “dolcetto o scherzetto?”.
Per i nostri ragazzi festeggiare Halloween è diventata quasi una consuetudine dettata dalla società. Se ne parla sui social, in tv e persino nei supermercati. Basta sbirciare il volantino delle offerte per accorgersi che quelle di ottobre presentano un unico tema: la festa dei mostri.
Si aggirano tra i vivi la notte del 31 ottobre, sono spiriti malevoli per sfuggire ai quali i bambini si camuffano, anche loro, da mostri.
Nulla a che vedere, insomma, con i nostri defunti, che nella tradizione siciliana tornano sulla terra per una notte, portando doni in cambio di qualcosa da mangiare.
Notte oscura di terrore la prima. Notte di amore e rispetto la nostra.
Ma andiamo per ordine.
Non è mia intenzione denigrare le tradizioni di altri popoli che festeggiano Halloween, ma semplicemente ricordare il valore del nostro “ponte di Ognissanti”, che si apre il 1° novembre con la festa con cui la Chiesa ricorda i suoi Santi. È una ricorrenza di speranza e di beatitudine, che ci ricorda come la “santità” sia la condizione a cui ogni cristiano dovrebbe aspirare.
Il Ponte di Ognissanti porta anche alla commemorazione dei defunti, tradizione antichissima che pare tragga origine nel 998, quando l’abate benedettino Sant’Olidone di Cluny stabilì di far suonare le campane con rintocchi funebri, dopo i vespri del 1° novembre, proprio al fine di celebrare i defunti.
In questo contesto, è tradizione secolare andare in visita al cimitero locale per portare fiori in dono e accendere lumini sulle tombe dei propri cari defunti, ma non solo.
COMINCIAMO DAI RICORDI. I MIEI.
Da bambino attendevo con ansia questa ricorrenza. Il mattino del 1° novembre era un giorno di festa che si onorava con la partecipazione alla Santa Messa e l’immancabile visita al cimitero, che proseguiva anche il giorno seguente. Il giro non era mai breve: si cominciava dai nonni e dai parenti più prossimi, per poi andare a trovare lontani parenti o conoscenti. A scandire il percorso tra i loculi, la recita di preghiere, la deposizione di un fiore, l’accensione di una lampada, ma anche il racconto di storie di vita dei nostri defunti che, almeno per un giorno, tornavano a vivere nei nostri ricordi e ad entrare nelle nostre e loro abitazioni. Già, perché la lunga giornata di festa si concludeva rigorosamente la sera con la preparazione del pasto per i nostri morti, che proprio quella notte sarebbero tornati a farci visita e avrebbero consumato la cena offerta loro, lasciando in cambio dolcetti, frutta martorana e “morticini”, ovvero i tipici biscotti siciliani a forma di ossa.
In altre parole, “u cannistru”.
Le tradizioni legate al culto dei morti in Sicilia sono tantissime e rappresentano la “summa” di altrettanto numerose influenze, non sempre e soltanto cristiane. C’è un elemento sostanziale, tuttavia, che le accomuna: la volontà di mantenere vivo il legame con i propri cari transitati alla vita eterna, relazionandosi con loro, credendo che continuano a vegliare su di noi e pregando per le loro anime. Un filo rosso che rappresenta la dignità di un popolo che guarda al futuro senza dimenticare le proprie origini.
Raccontiamo queste cose ai nostri figli!
Teniamo vivo con loro il ricordo di chi non c’è più ma ci ha preceduto ed è stato importante, talvolta essenziale, per la nostra vita!
LA FESTA DEL COLORE
Chi lo ha detto che tutto ciò che riguarda i defunti debba rigorosamente essere colorato di bianco o di nero?
Basta guardare le vetrine delle pasticcerie per rimanere estasiati dai vivaci colori della frutta martorana che, oltre a essere un dolce, è la manifestazione delle capacità artistiche dei nostri maestri dolciai ben prima dell’avvento del cake design.
In pochi, però, ne conoscono le origini, che risalgono all’epoca normanna.
Si narra che a preparale per la prima volta siano state le suore del monastero della chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, fondato nel 1194 dalla nobile Eloisa Martorana. Nel monastero c’era aria di festa per via della visita di una personalità importante, forse un altro prelato, o addirittura il sovrano, e poiché gli alberi del giardino erano ormai privi di frutta, che era stata tutta raccolta, le monache prepararono questi dolcetti di mandorle e zucchero a forma di frutto e li appesero agli alberi in sostituzione di quelli già colti.
I dolci siciliani legati al culto dei morti sono innumerevoli, come molteplici sono le storie e le tradizioni ad essi legate.
Si tratta di un patrimonio culturale importante, che non va perso, men che meno in nome di una pseudo globalizzazione che tende a dare risalto alle tradizioni di Paesi a noi lontani non soltanto geograficamente, che fanno del consumismo la loro principale ragione.
Se imparassimo a dare risalto alle nostre tradizioni, il ponte di Ognissanti si trasformerebbe anche in Sicilia in una risorsa importante per fare turismo e diffondere cultura.
In questo modo, mi piace pensare, anche i nostri defunti ci sarebbero grati, perché faremmo qualcosa di buono per la nostra e loro amata terra!