Dal fallimento americano alla vera resilienza. Storia di un paese complicato che ha toccato in questi giorni uno dei suoi momenti più bui.
“Voi avete gli orologi, noi il tempo”.
Nessuno aveva capito appieno il significato di questo motto talebano. Almeno fino ad oggi. Improvvisamente queste poche parole appaiono per ciò che sono: profetiche. E noi, all’alba della nascita dell’Emirato islamico talebano, torniamo a interrogarci sul perché di una guerra così lunga, logorante e, nel contempo, sulla sua repentina fine.
L’argomento è più che mai complesso e il mio intervento odierno non ha e non può avere l’autorevolezza degli editoriali scritti da esperti di politica internazionale e geopolitica. Non potevo, però, ignorare quelle immagini di disperazione che hanno fatto il giro del mondo e toccato le corde dell’anima di ognuno di noi. Fotogrammi che raccontano la disperazione di tante persone che hanno creduto nel modello occidentale, illudendosi che non si sarebbe mai tornati indietro.
Oggi quell’orologio l’ho portato indietro anche io e vent’anni sono diventati un attimo. Sono tornato con la mente all’11 settembre 2001 e a quei precipitosi eventi che condussero gli americani all’intervento militare al comando di una missione Nato. Ricordo con estrema chiarezza quando il mondo occidentale, sempre troppo distante da ciò che accade oltre i confortanti confini della democrazia, scoprì quasi incredulo l’esistenza di luoghi in cui le donne erano considerate come schiave. La loro prigione non erano le case, ma il “burqa”, un tipo di velo integrale che consentiva loro solo di respirare, e male.
Sfido chiunque a non considerare la donna afgana come l’emblema della liberazione del paese. Le fu restituita dignità, così come il diritto allo studio, al lavoro, alla vita. A distanza di vent’anni, tuttavia, ho capito (forse lo sapevo già, ma non volevo ammetterlo) che la libertà di quel popolo contava sì, ma non quanto la necessità di vincere la guerra. Lo ha detto a chiare lettere, nel suo intervento, il presidente americano Biden. «Eravamo là per combattere il terrorismo, non per costruire una nazione».
Chi lo dice oggi a quelle ragazzine cresciute con la consapevolezza che la libertà è un diritto fondamentale e nessuno può toglierla? Chi lo dice agli studenti che speravano di poter dare un contributo per la crescita del Paese? O ai padri di famiglia onesti, lontani dagli integralismi e desiderosi soltanto di una vita pacifica?
E soprattutto: chi lo dice a quei disperati che si sono precipitati in aeroporto, aggrappandosi alle ali di un aereo come ci si aggrappa a un sogno, pur sapendo che non si potrà mai avverare.
Non possiamo non ammettere che l’attuale Presidente statunitense ha avuto la sfortuna di trovarsi nel momento finale di un percorso già deciso da tempo. Su di lui ricadono colpe sue e di altri.
La scelta del ritiro americano affonda infatti le sue radici negli anni passati. Pensata da Obama, preparata da Trump, conclusa da Biden e condivisa dagli americani, che mal sopportavano i costi umani e reali di una guerra troppo lontana, di cui si era perso, o forse non si era mai capito, l’esatto significato.
Ma era necessario davvero un ritiro completo e così rapido? I generali dell’esercito erano consapevoli della inadeguatezza dell’esercito afgano. L’intelligence no. E se sapeva, taceva. Così, ai primi successi dei talebani, si è consumata la resa e l’avanzata delle forze jiadiste è divenuta inarrestabile. Nulla di nuovo sotto il sole. Un errore simile a quello compiuto in Iraq nel 2011, quando il ritiro completo delle truppe americane ha aperto la strada allo Stato islamico.
Se la scelta di impegnarsi in una guerra ventennale è opinabile, altrettanto lo è la decisione di disimpegnarsi tout court, mortificando i sacrifici di coloro che hanno combattuto e perso la vita in Afghanistan, come i nostri 53 militari.
Toltisi di mezzo gli americani, cinesi, russi e persino turchi si preparano alla contromossa, pronti a tendere una mano ai talebani e mettere l’altra sulle ricchezze minerarie del paese.
Dove si è sbagliato?
Le guerre non sono mai giuste, ma è ancor più sbagliato pensare che, con l’uso delle armi, si possa imporre il proprio modello di stato. Chi lo ha detto che quello occidentale sia l’unico modello di democrazia possibile? In un paese ampio e frammentato, quale è l’Afghanistan, dove i confini politici non coincidono con il concetto di nazione, un modello applicabile può essere quello di una democrazia consensuale, le cui fondamenta poggino sulla ricerca di un equilibrio regionale che coinvolga tutti i paesi asiatici. I ponti si costruiscono, non si distruggono e nessuna potenza asiatica sarebbe stata interessata, ai tempi, a rompere l’equilibrio afgano.
La verità l’ha candidamente detta Biden in questi giorni: gli Stati Uniti sono intervenuti in Afghanistan per colpire duramente al Qaeda e solo dopo si sono concentrati sul nation building, che non era il loro obiettivo finale. Attenzione, però, ad un particolare: la missione è sempre stata sotto l’egida della NATO, che è un’alleanza prettamente militare a scopi difensivi e come tale non ha gli strumenti per costruire uno Stato. Perché non è intervenuta l’ONU, con le sue innumerevoli competenze a riguardo? L’errore, a mio modo di vedere, è stato macroscopico e ha vanificato gli sforzi che pure sono stati fatti per creare lo Stato afgano.
L’altra grande verità è che, per quanto ci si sforzi, l’Afghanistan resta sempre un luogo impervio dove convivono decine di etnie rivali tra loro. In assenza di un vero spirito patriottico, anche l’esercito più motivato rischia di soccombere, figuriamoci quello afgano. Il risultato è stato sotto gli occhi di tutti: resa incondizionata.
Accanto ai conniventi, ai corrotti, ai voltabandiera, ci sono poi coloro che la rivoluzione l’avevano fatta davvero, ma senza le armi. Con il lavoro silenzioso di ogni giorno. Con lo studio, assaporando la libertà e insegnandola ai propri figli. Per loro non ci sarà più spazio in quei luoghi. Eppure, restano l’unica vera speranza per l’Afghanistan. In patria da oppositori o, altrove, da profughi, dovranno essere loro e soltanto loro a guidare la più grande rivoluzione, quella della cultura. Perché lo spirito di nazione non si impone, ma si costruisce nel tempo attorno a un comune sentire. Saranno proprio le donne a completare questa difficile opera. Forse dovranno indossare nuovamente il burqua, ma se accetteranno di farlo sarà, mi auguro, per una giusta causa, per non fuggire e tessere con pazienza la tela della vera libertà. Non avranno gli orologi, ma anche loro, dalla loro parte, avranno il tempo.
(Foto: web)