Il record di Federica Pellegrini, che dice addio alle Olimpiadi solo dopo aver centrato un’impresa unica: entrare nella storia come prima donna a conquistare la quinta finale consecutiva nella stessa specialità.
La felicità del diciottenne tunisino Ahmed Hafnaoui, per il suo oro a sorpresa nei 400 stile libero e della tredicenne giapponese Momiji Nishiya, campionessa olimpica di skateboard specialità street.
Le lacrime di Aldo Montano, che lascia la sciabola a 43 anni, ammettendo la sua paura di compiere “un salto nel buio”.
Ci sono tante belle storie attorno alle Olimpiadi, c’è competizione, fair play e fratellanza. Problemi anche, guai se non ce ne fossero! Quando, tuttavia, si apre la splendida parentesi dei giochi a cinque cerchi, accade ciò che non ti aspettavi: ti accorgi, ad esempio, dell’esistenza di tantissime discipline sportive troppo spesso lasciate nell’ombra. All’improvviso dimentichi la tua passione spesso monodirezionale verso sport maggiori e ti ritrovi a guardare gare di ginnastica e a fare il tifo per podisti o lanciatori del giavellotto.
E poi ci sono i colori, quelli dei cinque cerchi, rappresentanti i cinque continenti, delle maglie degli atleti provenienti da ogni dove, persino dalle più piccole isole ubicate nei posti più reconditi della terra.
Gareggiare e vincere grazie alle proprie capacità, ma anche perdere, sapendo di aver fatto del proprio meglio; inciampare e rialzarsi, esultare ed emozionarsi. Che grande lezione di vita riceviamo ogni quattro anni dal favoloso mondo dello sport!
Il Pontefice ha definito queste Olimpiadi “Un segno di speranza, un segno di fratellanza universale all’insegna del sano agonismo”.
Mentirei nel dire che non esistono sovrastrutture, problemi, episodi poco edificanti. Sono però altrettanto convinto che in un momento così complicato come quello che stiamo vivendo è importante raccontare anche le belle storie, quelle dei tantissimi giovani che, in nome dello sport, fanno sacrifici e rinunce, ma nel contempo vivono senza barriere né fisiche né mentali, assaporando il gusto della vera libertà.
In origine, le Olimpiadi ebbero l’importante compito di unire la martoriata Grecia, crogiuolo di popoli, etnie, identità distinte. Con la “tregua sacra”, si sospendeva ogni conflitto esistente in nome dello sport.
Il palcoscenico oggi è ben più ampio di quello greco, il significato di questa competizione, tuttavia, resta esattamente lo stesso: unire i popoli attraverso lo spirito sportivo.
Dal 1896, anno in cui hanno avuto origine le Olimpiadi moderne, firmate Pierre de Coubertin, solo le guerre mondiali le hanno fermate. Furono tre le edizioni annullate: Berlino 1916 – Tokyo 1940 – Londra 1944.
In queste tre occasioni lo spirito di fratellanza sportiva ebbe la peggio e finì per soccombere sotto il peso delle lacerazioni e dei conflitti che dilaniavano l’Europa e il mondo intero.
In pochi conoscono, invece, quanto accadde esattamente 100 anni fa. Il mondo si era appena lasciato alle spalle il dramma della grande guerra e ne stava vivendo un altro altrettanto pesante: la pandemia di influenza spagnola, che causò la morte di circa 50 milioni di persone su tutto il pianeta. Nonostante la difficile situazione si decise di non cancellare l’edizione di Anversa del 1920, che passò alla storia come la prima Olimpiade in cui fu recitato il giuramento olimpico, sventolata la bandiera a cinque cerchi in uno stadio e istituzionalizzato il rito della liberazione delle colombe bianche, come simbolo di pace, nel corso della cerimonia di apertura.
Un secolo dopo, il comitato olimpico si è trovato nuovamente dinnanzi ad una difficile scelta: annullare, come già in passato era stato fatto, oppure, come è stato scelto di fare per la prima volta nella storia, rinviare di un anno i giochi. La pandemia non è ancora alle spalle, anzi, tutt’altro. E le preoccupazioni sono palpabili. Ma la torcia olimpica arde e con essa si alimenta anche la speranza di poterci gettare alle spalle questo lungo e difficile periodo.
E allora uniamoci tutti al grido: “Citius, Altius, Fortius!” Ed aggiungiamo pure la parola “communiter”! Grammaticalmente non è il massimo, ma il significato che gli si è voluto dare è importante: “INSIEME!”