Mi chiamo Valentino, ho 42 anni, sono marito e padre. Lo dico sempre con senso di responsabilità, perché ritengo che la famiglia sia la cellula fondamentale di ogni società; pietra d’angolo su cui costruire un mondo migliore; luogo della donazione più completa di sé agli altri.
La famiglia è generatrice di vita.
Viviamo un periodo di crisi generalizzata, che sta producendo effetti negativi anche sulla natalità. I dati riferiti al 2020 parlano da soli: un calo del 3,8%, con l’iscrizione all’anagrafe di 404.104 bambini. Le previsioni per il 2021 sono ancora più drastiche, con il superamento, a ribasso, della soglia dei 400 mila nati.
La via maestra è stata indicata, proprio in questi giorni, da Papa Francesco, che in occasione degli Stati generali della natalità, ha ricordato che l’Italia può ripartire solo dalla vita.
Una inversione di tendenza, quella di Papa Bergoglio, che ci fa guardare alla crisi demografica da un’altra prospettiva: non come conseguenza, ma come causa.
Come può una società in cui gli ultranovantenni sono raddoppiati e la popolazione in età attiva si è ridotta di oltre 1,4 milioni, trovare le energie per sollevare, con il lavoro, la produzione?
Da padre, comprendo le paure e le difficoltà delle giovani coppie che avvertono la responsabilità di generare figli senza un lavoro per sostentarli. Spesso, come spiegato da Padre Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale della famiglia, il desiderio di fare famiglia “si scontra con il principio di realtà”.
Cosa fare? Soccombere alla logica della paura? Oppure reagire rivendicando il diritto ad essere genitori? E con esso quello a non dover scegliere tra il lavoro e la maternità o paternità?
Capite bene come il problema sia anche politico, sociale, culturale, esistenziale.
Mi chiamo Valentino, ho 42 anni e quando posso partecipo alla marcia per la vita, che si tiene ogni anno a Roma il 22 maggio, in occasione dell’anniversario dell’approvazione della legge 194, che nel 1978 introdusse l’interruzione di gravidanza anche in Italia.
Sono nato proprio quell’anno, nel 1978, ma tanti miei coetanei non videro mai la luce a causa di questa “concessione”. E dopo di loro molti altri ancora. Le statistiche ci dicono che nel quarantennio dall’entrata in vigore della legge sono state spezzate volontariamente e prima ancora che venissero alla luce circa 6 milioni di vite. Una cifra enorme, un vulnus impossibile da rimarginare.
A volte mi definiscono “antiquato”, perché credo nel diritto alla vita sin dal concepimento. Qualcuno persino “anti femminista”, perché rinnego ciò che, incomprensibilmente, viene considerata una conquista delle lotte per l’indipendenza delle donne. Eppure, io amo le donne, le stimo e le rispetto come ogni persona. Però ritengo che donare la vita sia un atto di generosità. Toglierla sia un male da scongiurare.
Ci sono alternative all’aborto? Senza dubbio sì: l’adozione. Una scelta che consente alla donna di garantire il diritto alla vita del proprio figlio, pur rimanendo nell’anonimato e rinunciando alla maternità, e ad una coppia che un figlio lo ha desiderato tanto, di poterlo accogliere e amare, donandogli un futuro.
La vita è sempre l’alternativa alla morte!
Quarantadue anni fa come oggi la via maestra resta sempre una: parlare alla gente; sensibilizzare i giovani alla cultura della vita; stare vicino e sostenere chi si sente a un bivio, perché scelga per la vita.
Chi decide di avere un figlio o di adottarlo è capace di guardare al futuro. Mi piace citare ancora Papa Francesco, che racchiude il concetto di vita in tre parole: dono, sostenibilità, solidarietà. La scelta di avere figli implica la capacità di donare la vita, di prendersi cura dei figli e la coscienza che con questa azione si contribuirà al bene della società.
E allora, difendiamo la vita, sempre!