«L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nell’incessante libertà morale, nella fedeltà ai princìpi, nella sua capacità di sacrificio (…) ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori le mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività.
(…) Il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato».
Rosario Livatino, dalla conferenza “Il ruolo del giudice in una società che cambia”, svoltasi a Canicattì, presso il Rotary club cittadino, il 7 aprile 1984.
6 anni più tardi, il 21 settembre 1990, fu brutalmente assassinato.
Il 9 maggio 2021, nella sua Agrigento, è stato proclamato Beato.
Un uomo, un giudice che ha vissuto nell’ombra di una quotidianità fatta di totale dedizione al lavoro. Trascorreva intere giornate in ufficio, sacrificando persino la pausa pranzo. Chiuso tra quelle mura, eppure in trincea a volto scoperto e senza scudi in sua difesa, eccetto il diritto, che applicava con scrupolosità e onestà.
Che cosa avrebbe detto Rosario Livatino, se fosse ancora vivo, degli scandali che stanno coinvolgendo quella magistratura alla quale si onorava di appartenere?
Probabilmente non avrebbe preso posizione, lasciando alla propria, coerente condotta ogni implicito messaggio. O forse avrebbe ribadito le stesse parole pronunciate 37 anni or sono, illuminanti per chiunque si fermi a riflettere su quanto sta accadendo in questi anni. Dal caso Palamara a quello più recente della sedicente loggia Ungheria, che vede coinvolti nomi altisonanti della magistratura italiana, tra cui Piercamillo Davigo, numero 3 di quel pool di mani pulite che ha fatto la storia in Italia. Magistrato sempre mostratosi integerrimo, caduto oggi sotto i colpi di uno scandalo che lascia senza fiato e senza parole. Perché qualsiasi verbo pronunci, rischi di sbagliare.
In questo scandalo fatto di corvi, copie di verbali secretati, logge massoniche “coperte” e rilevanti omissioni, emergono apparati dello Stato composti da uomini che si definiscono “liberi”, ma che non lo sono fino in fondo. Un’Italia in cui, se accetti di stare al vertice, scegli la strada del compromesso, rischiando di vanificare in un attimo una credibilità conquistata con la fatica negli anni. Livatino ha scelto di rimanere “libero ed indipendente”, pagando questa decisione con la sua vita. Oggi più di ieri il suo sacrificio è esempio di come l’amore e la ricerca della giustizia siano prima di tutto “vocazione”. Non semplicemente un fatto di fede, quella che animava Livatino, ma che potrebbe anche non essere presente in togati laici o non credenti. Più che altro una questione di ideali, di morale, di integrità.
C’è una cosa a cui non riesco a rassegnarmi: l’idea che in Italia per giungere al vertice bisogna essere del sistema, piuttosto che scardinarlo. A volte il sistema è la mafia, altre volte la massoneria, in altri casi la corruzione.
Livatino oggi è Beato in Paradiso e ci illumina con il suo insegnamento. La sua eredità resta.
Gli altri litigano, attaccano e si difendono in tv e sui giornali, probabilmente anche nei Tribunali. Ma la loro luce si spegnerà con un click di telecomando.