Celebrare quest’anno la giornata mondiale del teatro ha un significato molto particolare e un retrogusto amaro. Esattamente un anno fa, in pieno lockdown, ascoltammo il grido di dolore del settore, a cui fece eco, quello stesso giorno, in parte coprendolo, in parte amplificandolo, la preghiera universale di Papa Francesco in piazza San Pietro.

Mai avremmo pensato, tuttavia, ad uno stop così prolungato. I teatri chiusi, o aperti soltanto per ospitare eventi in solitaria, seppur trasmessi in diretta in tutto il mondo, sono un colpo al cuore per ciascuno, ma incidono ancor più profondamente sulla vivacità culturale di un paese.

Assistiamo giornalmente ad una spasmodica ricerca della normalità, che si concretizza nel tentativo di ripristinare i ritmi della movida, con mondani happy hours e feste in questo periodo “discutibili”. Grida giustificate solo in parte dal disagio vissuto da un settore a cui va tutta la mia solidarietà.

Ciò che mi stupisce, invece, è il silenzio della gente comune sul grande vuoto lasciato dai teatri chiusi.  Alle proteste eleganti e sempre garbate dei lavoratori di questo settore, sfiancati da uno stop troppo lungo, non hanno fatto da spalla le lamentele del pubblico, nonostante la evidente privazione, giocoforza, del diritto alla cultura e alla bellezza.

Ci siamo interrogati sul perché non si sia spenta la nostra voglia chiassosa di fare festa, ma si sono affievolite la nostra fame e sete di cultura?

La grandezza di un popolo si comprende soprattutto dall’eredità lasciata nel tempo.

Noi ricordiamo i greci per le loro scoperte matematiche, fisiche, ma soprattutto per la letteratura, la filosofia, il teatro. Ancora oggi nei teatri a cielo aperto della Magna Grecia, e dunque anche nella nostra Sicilia, risuonano in estate le voci di opere immortali: Medea di Euripide, Edipo Re e Antigone di Sofocle e Agamennone di Eschilo, solo per citarne alcune.

Cosa ci resta dei romani, oltre alle strade, ai ponti, agli acquedotti?

Ci restano le commedie, le tragedie, la satira. E che satira!

Ma ci resta anche la consapevolezza dell’esistenza di un popolo che amava riempire i teatri.

Così è stato per secoli, fino a periodi non molto lontani da noi.

La Sicilia poi, è da sempre stata una fucina di autori e attori. Quando, nel 1903, il grande Angelo Musco fondò a Catania la Prima Compagnia Drammatica Dialettale Siciliana, diretta da Nino Martoglio, ignorava, forse, che la sua creatura avrebbe scritto la storia del teatro contemporaneo italiano ed europeo. Da quel luogo, che trasudava cultura da ogni dove, ma soprattutto passione per il teatro, passarono e si affermarono attori come Turi Pandolfini e Rosa Ballistreri. Lì si misero in scena le opere di Verga, Martoglio, Pirandello e D’Annunzio.

Allo stesso modo mi piace ricordare il ruolo centrale del Teatro Vittorio Emanuele di Messina nella vita della città in epoca pre- terremoto o del Teatro Placido Mandanici a Barcellona e del Trifiletti a Milazzo.

Negli anni successivi abbiamo, invece, assistito ad un inarrestabile disinteresse culminato, in alcuni casi, con la chiusura o la distruzione dei teatri stessi.

Un processo irreversibile?

Ritengo di no, ed il recupero, in tempi recenti, delle strutture per anni abbandonate (vedi la ristrutturazione del Trifiletti e il rifacimento ex novo del Mandanici) mi fanno ben sperare in tal senso.

Manca ancora, tuttavia, quella lungimiranza che consentirebbe un vero rilancio del settore.

La privazione di questo anno ci può venire in aiuto, in tal senso, per farci comprendere l’importanza del teatro nella vita sociale di ogni città.

Impariamo ad avere fame di teatro ed aiuteremo gli artisti e i tecnici a risollevarsi dalla crisi. Ma soprattutto aiuteremo noi stessi ad essere uomini migliori.

“Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza” – diceva Dante.

Seguiamo il suo insegnamento ed impariamo a nutrirci di teatro, così che alla riapertura saremo pronti a riempirli.