«Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia . Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli Atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come Legge dello Stato».
Dat. a Torino, addì 17 marzo 1861.
Nasceva così, 160 anni fa, la monarchia costituzionale italiana.
Le parole altisonanti del neonato parlamento italiano non raccontano, tuttavia, del sangue versato, né dei soprusi e dei massacri già subiti o che sarebbero stati subiti dagli abitanti del nuovo regno, prima di giungere a una completa e reale unificazione.
Quante volte, sui libri di storia, abbiamo studiato la straordinaria impresa dei mille vestiti di rosso e guidati da Giuseppe Garibaldi? Ancora oggi ogni strada percorsa dal cosiddetto “eroe dei due mondi”, ogni oggetto toccato, ogni luogo in cui si è fermato vengono ricordati come tesori di inestimabile valore.
La storia, tuttavia, la scrivono gli uomini, e non sempre quella studiata coincide con quella realmente vissuta.
Ci hanno raccontato, ad esempio, di un meridione povero, disagiato, abitato da briganti che ostacolarono, con la loro guerriglia, il glorioso processo della riunificazione. E di un nord civilizzato, industrializzato, avanzato. Come se il divario profondo tra le estreme regioni d’Italia esistesse già da allora e si fosse cristallizzato per colpa di un popolo refrattario al cambiamento. Per colpa nostra, insomma!
C’è poi un’altra scuola di pensiero, minoritaria, che ci racconta di un sud ricco, dinamico, all’avanguardia, depredato dall’avidità del regno piemontese, massacrato dalla violenza di un esercito di mercenari, i garibaldini, che costruirono l’unità al prezzo di violenze e distruzioni.
La verità, come al solito, potrebbe stare nel mezzo, come sostiene Eugenio Di Rienzo nel suo libro “L’Europa e la ‘questione napoletana’ 1861-1870”.
Se il regno borbonico non era “l’Eldorado” dipinto da una certa critica, è pur vero che non era nemmeno depresso e povero come invece ci ha raccontato la storiografia ufficiale. Aveva aree dinamiche, soprattutto in Campania e in Sicilia, una grande flotta mercantile, finanze floride e un indiscusso primato culturale. Al contrario del regno sabaudo, fra l’altro affogato dai debiti.
Persino i briganti non erano i banditi che ci hanno fatto credere fossero. Accanto ai contadini che cercavano di sfuggire al servizio di leva, c’erano anche ufficiali dell’esercito borbonico ed ex garibaldini delusi dai metodi repressivi dei Savoia.
Un ruolo fondamentale nelle vicende risorgimentali ebbero, inoltre, le questioni diplomatiche e gli intrighi intessuti dai sovrani regnanti (i Savoia) e da quelli esiliati (i Borbone). Il destino del nostro paese si giocò, insomma, nello scacchiere europeo e la “questione napoletana”, come fu chiamata, divenne uno dei temi della contesa politica tra Londra e Parigi.
Un’Italia unita e sotto la propria egemonia, seppur indiretta, rappresentava per l’Inghilterra un punto di forza nell’eterna contrapposizione con la Francia e un baluardo per il controllo del Mediterraneo. Con l’avvio dei lavori per la realizzazione del Canale di Suez e una Sicilia sotto scacco, la strategia egemonica inglese poteva infatti dirsi completa. Perché ciò accadesse, tuttavia, era necessario far scomparire il Regno delle due Sicilie, ostile ai regnanti d’oltremanica. La strategia seguita fu quella di un sostegno “umanitario”, motivato dalla necessità di porre fine al dispotismo di Ferdinando II e di sostituirlo con un sistema costituzionale e liberale nel quale fossero garantiti i diritti politici e civili.
La realtà, tuttavia, fu ben diversa, come argomentò Lord Henry George Charles Gordon-Lennox, parlamentare conservatore inglese, che in un discorso alla camera dei comuni tenuto l’8 maggio 1863 riferì quanto appreso in seguito alla sua visita a Napoli. Lord Lennox spiegò, in particolare, che i Savoia avevano instaurato un nuovo dispotismo peggiore di quello borbonico, che aveva portato ad arresti, epurazioni, massacri.
A tessere questi sottili equilibri, giovandosi opportunisticamente delle rivalse tra le principali potenze, ma anche tra i protagonisti del Risorgimento, fu senza dubbio il Conte di Cavour (che parlava bene il francese, di consueto il piemontese e poco l’italiano, ritenendolo materia scolastica). Cosa aspettarsi, d’altronde, da colui che è considerato a pieno titolo il “padre del trasformismo?”
Alla luce di quanto detto, il processo risorgimentale appare oscurato da pesanti ombre. Non trascurabile e irrilevante appare anche la scelta del re sabaudo di proclamarsi Re d’Italia mantenendo, tuttavia, il numero ordinale “II”, a ulteriore riprova del fatto che si trattò, invero, di annessione e non già di unificazione.
In ogni caso, sarebbe troppo semplicistico e per niente corretto sminuire il concetto di “Stato italiano”, cioè di tutti noi.
Le vicende storiche, maestre di vita, ci insegnano infatti che l’Italia si è creata con il sangue e il sacrificio degli italiani che, a partire dalla prima guerra mondiale, hanno fatto proprio il senso di appartenenza alla Nazione.
Da qui dobbiamo ripartire. Dal riconoscimento della nostra identità che non è per niente scontata, ma che è ancor più forte, proprio perché è stata costruita lentamente nel tempo e si fonda su solide radici comuni.
Le influenze esterne che dall’unificazione fino ad oggi, passando per le vicende della seconda guerra mondiale, limitano di fatto la nostra sovranità, condizionandone l’azione, non devono affievolire il dovere, da italiani, di coltivare sempre più quelle differenze culturali e sociali che sono la linfa del nostro “essere”, che ci rende unici e straordinari al mondo sotto molteplici profili, e cercare di appianare quelle economiche e infrastrutturali, frutto invece di politiche sbagliate nel post unità come oggi.
La via italiana all’unità resta la diversità, mitigata però da un’unica cornice, l’interesse nazionale, e da un unico sentire: Patria (terra dei padri).
E allora, buon compleanno, Italia!
(Foto: web)