“Mio padre raccontava che di notte nelle campagne circostanti si poteva osservare uno strano fenomeno: fiammelle fuoriuscivano dal terreno, pur tuttavia senza che ci fossero incendi. Solo dopo ne comprese la ragione. Erano le ossa degli italiani infoibati.”
Domenica Ragno aveva un anno quando fu strappata dal luogo in cui viveva con la sua famiglia, l’isola di Cherso, situata a pochi chilometri dall’Istria. Di quel periodo non ricorda alcunché, eppure il dolore di quella tragedia le ha segnato l’anima nel profondo e cambiato la sua vita per sempre. È un’esule Domenica, come altre decine di migliaia di italiani che, prevalentemente tra il 1943 e il 1947, furono costretti ad abbandonare i luoghi in cui vivevano, lungo il confine giuliano – dalmata, per sfuggire alle persecuzioni dei partigiani jugoslavi, al comando del maresciallo Tito. A differenza di altre famiglie, la sua godette della fortuna più grande: restò unita.
“Mio padre fu un sopravvissuto. Quando i soldati di Tito irruppero nella caserma dove prestava servizio uccisero tutti i suoi commilitoni, ma, inspiegabilmente, lasciarono andare lui.”
Per la famiglia Ragno non vi era nessuna alternativa, se non la fuga. Un ritorno alle origini, verso quel sud che Salvatore aveva deciso di lasciare molti anni prima per arruolarsi nella Guardia di Finanza e successivamente nell’Arma dei Carabinieri. Fuggirono senza portare nulla, grazie all’aiuto del parroco del luogo. Affrontarono il mare con una modesta imbarcazione sospinta solo dalla forza del vento, senza cibo né acqua e, dopo una lunga odissea, sbarcarono al porto di Bari. Il loro viaggio, tuttavia, si concluse dove era cominciato: a Messina.
Domenica ricorda da sempre questa tragedia, eppure per la gran parte degli italiani non è stato così.
Un eccidio volutamente dimenticato per quasi sessant’anni. Fino a quando, nel 2004, il Parlamento ha approvato la “legge Menia” (dal nome del deputato triestino Roberto Menia, che l’ha proposta) sulla istituzione del “Giorno del Ricordo”.
Il sacrosanto valore della memoria, largamente decantato per alcune pur deprecabili vicende storiche, è stato negato ai quasi 25 mila italiani infoibati e ai circa 350 mila nostri connazionali costretti alla diaspora (le cifre non sono certe e spesso stimate al ribasso).
Come è stato possibile un simile atto d’oblio?
La risposta è da ricercare nel clima generatosi nel secondo dopoguerra. La cortina di ferro divideva il mondo in due blocchi rigidamente contrapposti. In Italia, nonostante l’adesione nel 1947 al blocco filo-statunitense, si registrò una forte influenza del Partito comunista, che dal canto suo guardava con subordinazione a Mosca e non voleva incrinare i rapporti con Tito, avallandone e favorendone, talvolta, le azioni. Il risultato fu una tacita complicità tra le forze di centro e quelle di estrema sinistra, che scelsero volutamente l’oblio, calpestando il ricordo e la dignità di centinaia di migliaia di italiani, vittime incolpevoli di una nuova e intollerabile barbarie.
La risalita non fu facile. Solo negli anni novanta, dopo il crollo del muro di Berlino, cominciò, anche per questa tragica vicenda, un percorso volto a squarciare il velo di omertà e riscoprire la verità.
Ricordo personalmente (ero allora solo un ragazzino in cui stava nascendo la passione per la politica) quando nel 1991 il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si recò presso la foiba di Basovizza per chiedere perdono per le sofferenze subite dagli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.
La percezione del dramma da parte degli italiani fu molto lenta, perché nessun libro di storia ne parlava, e ai più le foibe restavano un argomento sconosciuto. Almeno fino al 2005, quando, con la prima celebrazione del “Giorno del Ricordo”, si è iniziato a colmare un vuoto enorme.
La strada, tuttavia, è ancora lunga. Se i nostri figli adesso studiano sui libri di storia quanto accaduto, non è stato lo stesso per le generazioni precedenti.
Vogliate perdonare, pertanto, la crudeltà delle parole con cui intendo raccontare l’orrore delle foibe.
COSA SONO LE FOIBE?
Le Foibe sono abissi di origine naturale che sprofondano per decine di metri nel sottosuolo del Carso, l’altipiano che si estende alle spalle di Trieste e di Gorizia.
Le popolazioni locali le usavano per disfarsi di carcasse di animali e scarti agricoli. Nel periodo compreso tra il 1943 e il 1947 (ma anche per diversi anni dopo) divennero, invece, vere e proprie fosse comuni per migliaia di italiani. Subito dopo l’armistizio i partigiani comunisti di Tito fecero il loro ingresso nei territori di confine, abitati da tantissimi nostri connazionali, che furono considerati nemici del popolo slavo e, senza alcun reale motivo, condannati, torturati, uccisi. Gli italiani venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi e schierati sugli argini delle foibe. Successivamente il plotone di esecuzione apriva il fuoco uccidendo, a raffiche di mitra, soltanto i primi tre o quattro della catena, che precipitavano nell’abisso, trascinando con sé gli altri sventurati. Coloro che non morivano a causa dell’impatto erano pertanto condannati a sopravvivere per giorni nei fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.
L’unica alternativa a un destino crudele, ma segnato, era la fuga. Sopravvissuti, ma con la morte nell’anima, centinaia di migliaia di italiani, come la famiglia Ragno, rinunciarono a tutto quello che avevano costruito in anni di lavoro e sacrifici, per ricominciare da zero.
Con la dignità calpestata, eppure carichi di dignità. Umiliati, dimenticati, oltraggiati e finalmente oggi ricordati.
Molti esuli, per decenni, non trovarono la forza di raccontare e testimoniare pubblicamente – talvolta nemmeno tra le mura domestiche – le storie di dolore e di sofferenza vissute in quei momenti, forse perché consapevoli dei muri di gomma diffusi nella nostra società.
Col tempo, però, le cose sono cambiate. Grazie all’impegno di tanti di loro le pagine delle storie familiari di migliaia di esuli hanno iniziato a ricomporsi, colmando e ricucendo gli strappi del grande libro della Storia.
Tuttavia, “… finché gli ideologismi non prevarranno nel giudicare i meri eventi, finché quella storia non diventerà eredità spirituale di tutti gli italiani, quel popolo continuerà a fuggire in un esodo senza fine. Solo la memoria può diventare schermo e scherno al dolore e ricucire un tempo sospeso, sanare le ferite, colmare il profondo vulnus con la pietà umana “ (tratto da “La battaglia della memoria di Milena Romeo”, pagg.207-210, “Sulle ali della Memoria – Gli esuli giuliano – dalmati di Sicilia ricordano, a cura di Maria Cacciola, Giambra editori).
Il nostro compito, dunque, è proprio questo: ricordare, raccontare, testimoniare per restituire dignità, giustizia e verità a chi venne tolto tutto, sol perché italiano.