Il 19 gennaio 1969 in un ospedale di Praga moriva, dopo tre giorni di agonia, Jan Palach, uno studente universitario che si era dato fuoco in segno di protesta contro l’occupazione sovietica.
Ritengo sia utile ricordare la sua figura per ciò che ha rappresentato: un giovane che con il suo estremo sacrificio ha inteso risvegliare le coscienze, impedendo al mondo di far finta di non vedere ciò che stava accadendo in Cecoslovacchia, così come negli altri paesi ad egemonia comunista.
La storia di Palach, la “torcia umana n. 1”, si intreccia pertanto con quella dell’Europa e degli stati aderenti al patto di Varsavia che, seppur soggetti all’egemonia sovietica, cercarono la via delle riforme e della libertà. E si intreccia anche con quella di tanti giovani che, come lui, avevano creduto alle riforme promosse da Alexander Dubcek, leader della “Primavera di Praga”. L’invasione delle truppe sovietiche cancellò in un sol colpo tutte le concessioni democratiche tenacemente ottenute, in particolare la libertà di stampa e di opinione. Il primo a trovare il coraggio di opporsi fu proprio lui, un anonimo studente di filosofia che, ispirato dal monaco buddista Thích Quảng Đức, che si era dato fuoco nel 1963 per protestare contro l’amministrazione del presidente del Vietnam del Sud, ne emulò il gesto.
Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 Jan Palach si cosparse di liquido infiammabile e si diede fuoco in piazza San Venceslao, a Praga.
“Non voglio suicidarmi, mi sono dato fuoco come fanno i buddisti in Vietnam, per protestare contro quel che succede qui, contro la mancanza di libertà di parola, di stampa e di tutto il resto”. Queste le sue parole, pronunciate mentre si trovava in fin di vita in ospedale.
Nel suo zaino fu ritrovata una delle 4 copie della lettera che Palach, prima di darsi fuoco, spedì al leader studentesco di Praga, all’assemblea della Facoltà di lettere e filosofia e a un compagno di studi a cui era particolarmente legato.
Vi era scritto: «Io sono il primo a cui tocca l’onore di eseguire la nostra decisione. Sono il primo che ha avuto l’onore di scrivere la lettera, e sono anche la prima torcia. La richiesta principale è l’abolizione della censura: se questa richiesta non sarà rispettata entro cinque giorni, vale a dire entro il 21 gennaio 1969, e se la gente non dimostrerà appoggio alla nostra azione, altre torce umane mi seguiranno». Le lettere recavano la firma: “Torcia umana n°1”.
Jan Palch morì tre giorni dopo in ospedale. La camera ardente, allestita nella facoltà di filosofia, divenne meta incessante del pellegrinaggio non solo dei praghesi, ma di tutta la nazione. Il 25 gennaio, giorno dei funerali, una marea silenziosa di seicentomila persone diede l’ultimo saluto al giovane immolatosi per la libertà.
La sua morte diede inizio a una grande crisi ed altri 4 cittadini, come lui, scelsero il sacrificio estremo.
Jan Palach può essere considerato un martire? Senza dubbio sì.
A me, tuttavia, piace ricordarlo come un giovane animato da passione sociale, amore per la libertà, desiderio di combattere per conquistarla e coraggio. Con il suo estremo sacrificio ha restituito ai suoi connazionali la dignità, che le truppe sovietiche, con i carri armati, avevano calpestato.